© Carlos Penelas, 2014. Con la tecnología de Blogger.
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Carlos Penelas

“A veces dudo si Trieste no fue un espejismo, / una precaria gloria de la felicidad (A volte mi chiedo se Trieste non sia stata che un miraggio,/una precaria gloria della felicità.)

Innamorarsi di una città. Venirla a cercare di nuovo dall’altra parte del mondo. Scegliere di scrivere un libro di poesie interamente dedicato a tutto ciò che questa città ha trasmesso in più soggiorni, per poter poi condividere col mondo le stesse sensazioni.

È Trieste, ancora una volta protagonista di un lirismo che cerca spazio tra altri già esistiti.

È Carlos Penelas che a differenza di tutti i grandi scrittori che hanno fatto di Trieste il loro palcoscenico letterario, ha saputo leggere un incanto e una bellezza dentro una città definita troppo spesso in un gioco di parole ‘la Trieste triste’.

È arrivato, l’ha amata, l’ha trascritta e se n’è andato di nuovo.

Il 13 aprile del 2013 il postino ha suonato alla mia porta per consegnarmi un pacco dove dentro c’era Poemas de Trieste firmato da Carlos Penelas e una breve dedica di ringraziamento.


È una collaborazione iniziata quasi per gioco e sicuramente per caso.

Mentre servivo cappuccini e sparecchiavo tavoli in hotel James Joyce – lo stesso dove lui ha soggiornato – un collega mi informa che un poeta argentino di fama internazionale voleva conoscermi per una traduzione.

Dopo lo scambio di mail tramite l’hotel, mi scrive il giorno dopo:

“Ho soggiornato per qualche settimana presso l’hotel James Joyce per terminare il mio libro di poesie su Trieste. Cercavo assiduamente una traduttrice che conoscesse bene la lingua spagnola e i tuoi colleghi mi hanno dato il tuo nome. So che lavori lì come cameriera delle colazioni, che studi lingue, che scrivi e soprattutto che hai vissuto in Spagna. Ti va di tradurre due poesie del mio libro?”

In brevissimo tempo si è creata una fitta rete di scambi letterari, in cui Penelas mi ha inviato tutte le sue conferenze, le critiche sul suo nuovo libro, vecchi articoli e poesie scritti anni prima e, sempre, un’allegria e una gratitudine rara.

Le poesie che mi ha chiesto di tradurre non sono state altro che due, ma a me è sembrata la “missione” più bella che mi potesse capitare negli ultimi due anni dove la mia “arte” maggiore era diventata quasi solo servire cappuccini e pulire pavimenti.

In Hotel James Joyce e En la noche despierta del otoño (Nella notte sveglia dell’autunno) Carlos Penelas ha disegnato un incontro perfetto tra le sue emozioni e gli scorci di Trieste; parlare di descrizione nelle sue poesie mi sembra piuttosto azzardato, ma l’incanto che è riuscito a trasmettere nei “loro” incontri, ricorda il lirismo di un’amata, una città che si fa donna davanti agli occhi del poeta.

Trieste, allora, assume una nuova soggettività: non più la triste città del nord-est italiano, che nulla ha a che fare con l’Italia (e con gli italiani), bensì si tramuta in un “miraggio”, un arabesco illuminante che appare per offrire beatitudine, sciogliendone l’amarezza: Y la luz silenciosa y alta del verano/vaga en este sentir melancólico, absoluto/anhelante de claridades. – E la luce silenziosa e alta dell’estate/vaga in questo sentire malinconico, assoluto/anelante di sincerità.

Trieste nei suoi silenzi è una sorta di “bella addormentata” che non chiede di essere risvegliata, ma soltanto contemplata attraverso l’emozione che uno sguardo al mare, un saluto a un passante, o una passeggiata solitaria tra le vie di Cavana può dare vita ad un nuovo momento: Esta ciudad cambió mi vida – Questa città ha cambiato la mia vita.

Poemas de Trieste ha dato una lettura nuova di una città già “denominata”. Le ha dato una nuova dignità e un sospiro di sollievo, una forma di riscatto che si offre umile e sentimentale tra le mani dei lettori.



EN LA NOCHE DESPIERTA DEL OTOÑO

Ahora que flotan tus vestidos en las aguas,

ahora que tu voz cruza lutos y banderas anarquistas,

siento la lluvia y la derrota en este asombro,

en un parque de rostros primitivos.

Los espejos ocultan esa otra incertidumbre,

esas piedras silvestres de los montes

como si se tratase de pescadores o mujeres con velas

desaparecidos en la tormenta o en el odio.

(Esta ciudad cambió mi vida

una noche que contemplé el mar desde la niebla).

Aun rompe el tiempo el pájaro que reposa

sobre el árbol. Aún ofrece al viento el desatado

recuerdo de sus cabellos, la penetrante soledad

murmurando tus senos, sostenidos e intensos.

Y la luz silenciosa y alta del verano

vaga en este sentir melancólico, absoluto

anhelante de claridades. Impaciente.

Carlos Penelas
(Poemas de Trieste)


‘deso che le tue straze xe in acqua

‘deso che la tua vose pasa lutti e bandiere anarchiche

sento la piova e la sconfitta in ‘sto stupor,

in un parco de visi primitivi.

I speci scondi ‘sta altra incertezza,

queste piere silvestri dei monti

come se fosi pescadori o babe con vele

sparidi nel neverin o nell’odio.

(‘sta cità ga cambia’ la mia vita una note che vardavo el mar oltre el caligo).

Ancora infrangi el tempo l’usel che sta sull’albero

ancora ghe da’ al vento el ricordo sfrenato dei suoi cavei, la solitudine che vien dentro

mormorando i tuoi seni, sostenuti e intensi

e la luce zita e alta dell’estate

va in giro in ‘sto sentir malinconia, assoluto

anelante de sincerità. Impaziente.


NELLA NOTTE SVEGLIA DELL’AUTUNNO

Ora che fluttuano i tuoi vestiti nelle acque,

ora che la tua voce attraversa lutti e bandiere anarchiche,

sento la pioggia e la sconfitta in questo stupore,

in un parco di volti primitivi.

Gli specchi nascondono quest’altra incertezza,

queste pietre silvestri dei monti

come se si trattasse di pescatori o donne con vele

scomparsi nella tempesta o nell’odio.

(Questa città ha cambiato la mia vita

una notte che contemplavo il mare attraverso la nebbia).

Ancora infrange il tempo l’uccello che riposa

sull’albero. Ancora offre al vento il ricordo

sfrenato dei suoi capelli, la solitudine penetrante

mormorando i tuoi seni, sostenuti e intensi.

E la luce silenziosa e alta dell’estate

vaga in questo sentire malinconico, assoluto

anelante di sincerità. Impaziente.

Francesca Schillaci
(traduzione)


HOTEL JAMES JOYCE

A través de la noche – cerrando los ojos en esa sombra abierta del sueño –

entra el mar a mi cuarto. Hay constelaciones y moradas en un olvido sin

edad ni fondo. Entra también el cielo y el silencio; brotan palabras hermosas.

Duérmete, amada, y contempla esta noche donde nuestros nombres no

regresan. Ven a ver el viento entre veleros, lo visible y palpable que está

afuera de ésta habitación. Hay nubes de toda condición, almas tatuadas por

caricias ardientes, una alegría serena que madura desnuda, una hora y las

campanas de la iglesia ortodoxa, una túnica azul de espuma y los monosílabos

que hacen saltar a Trieste. (Pero también veo la Risiera de San Sabba y las

pinturas de Vito Timmel. ¡Ay, qué dolor, qué terrible todo!)

El edificio es de 1770 y frente a mi se extiende el mundo. Algo se anuncia,

amada, algo se anuncia en estas alas hacia auroras distantes. Algo que

desconozco vuelve a ser todo. No es el azar ni la plegaria. Tampoco es fruto

de una bella ilusión. Hay una pasión que huye, un deseo por perecer en

hondo aliento. Un ascenso de otra magnitud, redentor, que respira la

eternidad del hombre, que invade recuerdos, el amor en la memoria de

los árboles, de las travesías. En la mirada – radiante y sorprendida – una

fábula eleva el tiempo de los días. En vía dei Cavazzeni, 7 los ojos se

consuelan y apaciguan cuando a través de la noche los dioses invocan la

circulación de ese mar trajinante.

Carlos Penelas
(Poemas de Trieste)


HOTEL JAMES JOYCE

Nel mezzo della notte – chiudendo gli occhi in quest’ombra aperta del sogno-

entra il mare nella mia stanza. Ci sono costellazioni e dimore in un oblio senza

età né fondamenta. Entra anche il cielo e il silenzio; borbottano parole leggiadre.

Dormi, amata, e contempla questa notte dove i nostri nomi

non ritornano. Vieni a vedere il vento tra i velieri, il visibile e il palpabile che sta

fuori da questa stanza. Ci sono nuvole di ogni tipo, anime tatuate dalle

carezze ardenti, un’allegria serena che matura nuda, un’ora e le

campane della chiesa ortodossa, una tunica azzurra di schiuma e i monosillabi

che ricordano Trieste. (Ma vedo anche la Risiera di San Sabba e i

dipinti di Vito Timmel. Oh, che dolore, quant’è terribile tutto!).

L’edificio è del 1770 e di fronte a me si estende il mondo. Qualcosa si annuncia,

amata, qualcosa si annuncia in queste ali verso aurore distanti. Qualcosa che

non conosco diventa tutto, di nuovo. Non è né l’occorrenza né la preghiera. Non

è neanche il frutto di una bella illusione. C’è una passione che fugge, un desiderio per perire

in un respiro profondo. L’ascesa di un’altra grandezza, redentore, che respira

l’eternità dell’uomo, che invade ricordi, l’amore nella memoria degli

alberi, delle traversate. Nello sguardo – raggiante e sorpreso – una

favola erige il tempo dei giorni. In via dei Cavezzeni, 7 gli occhi

si consolano e si quietano quando tra la notte gli dei invocano lo

scorrimento di questo mare trascinante.

Francesca Schillaci
(traduzione)

Qualcosa sull’autore:



Carlos Penelas nasce ad Avellaneda, in provincia di Buenos Aires (Argentina) nel 1946.

È poeta, scrittore e conferenziere. Ha pubblicato finora più di venti opere tra poesia e prosa, tra le quali si posso dividere Poemas del amor sin muros (1970), La gaviota blindada y otros poemas (1975), Conversaciones con Luis Franco (1978), Los dones furtivos (1980), Finisterre (1985), Queimada (1990), El corazón del bosque (1992), El mirador de Espenuca (1995), Guiomar / Cantiga (1996), Los gallegos anarquistas en la Argentina (1996),Valses poéticos (1999), Desobediencia de la aurora (2000), El regreso de Walter González Penelas (2001), Elogio a la rosa de Berceo (2002), Diario interior de René Favaloro (2003), El aire y la hierba (2004), Crónicas del desorden (2006), Romancero de la melancolía (2007), Fotomontajes (2009), Antología personal (2010, Calle de la flor alta (2011), Poesía reunida (2012).

Un’estesa opera poetica che vede coinvolti nella critica e nella lettura attenta scrittori come Luis Franco, Raúl González Tuñón, Ricardo Molinari, Juan L. Ortiz, Elvio Romero, Osvaldo Bayer, David Viñas, Eduardo Blanco Amor, Héctor Ciocchini, Xesús Alonso Montero, Graciela Maturo e altri ancora, si rivela come un “divenire creatore” di Carlos Penelas, massimo esponente tra i poeti più rappresentativi d’Argentina.

La critica ha notato nella poetica di Penelas una preoccupazione radicale nell’addentrarsi dentro i simboli espressivi e nelle strutture moderne, conciliando in questo sia il peso che la misura del suo lirismo.

Francesca Schillaci
© centoParole Magazine – riproduzione riservata

Francesca Schillaci, redattrice. Frequenta il corso di Lingue e Letterature straniere presso l’università di Lettere e Filosofia a Trieste. Da sempre amante di letture di classici, si dedica alla musica, al disegno e alla scrittura, prediligendo la fusione dell’arte musicale con la composizione poetica; in Spagna pubblica la sua prima introduzione per un libro di fotografia e una volta tornata in Italia inizia a collaborare con più pubblicazioni online (‘La Voce di Trieste’ , ‘dotART Magazine’, ‘TriesteAllNews’. Attualmente collabora ad un progetto di pubblicazione per un giornale cartaceo di un rione di Trieste, dal titolo ‘Citavecia Starigrad’.
domingo, marzo 30, 2014 No comments

No os riáis de nosotros los celtas. 
Jamás haremos Partenón alguno, porque nos falta el mármol, pero sabemos tomar en nuestras manos el corazón y el alma. 
Renan.


Habitábamos en un barrio de Barracas al Sur, Piñeiro. Nombres anónimos se mezclaban con símbolos que nos parecían eternos, una pasión virginal que sólo la inocencia le otorga don poético: el frigorífico La Negra, la panadería El Cañón, el riachuelo, el tranvía veintidós, la avenida Pavón. Algunos portales de hierro, algunos patios, la fachada de mármol de la casa del médico. Y otros nombres gloriosos que repetíamos con fervor en esas calles quietas, apacibles: Micheli, Cecconato, Bonelli, Grillo, Cruz.

El ambiente de mi niñez fue mágico. El puente viejo, el olor de las barracas, los potreros que poseían una sacralidad que los transformaban en rituales y únicos. Vivía ocupado por pensamientos secretos, sin testigos, en una suerte de ensueño místico. La necesidad de un obstinado retiro. Un sentimiento que gusta del silencio. Había -lo sigue habiendo- una inmovilidad, una contemplación perezosa.

Madre me leía cuentos antiguos, los Cuentos de Calleja. Soñaba con princesas, hadas, bosques encantados, umbrales lejanos desde donde se veía el mar. Mi padre me llevaba de la mano por parques entrañables. Crecían leyendas libertarias, banderas, epopeyas de obreros, galeotes ingleses, hórreos, monasterios eslavos. Armas secretamente guardadas en roperos de roble, hembras que crecían entre el amor y el peligro.

Un valor oracular, como una profecía. En ellos la memoria de seres de otras tierras, una cosmogonía que puebla a criaturas de ensueños y mitos. Voces que forman un conjuro vaticinador, la piedad por el hombre desamparado, frágil. Y al mismo tiempo insurrecto, traductor del misterio y del arado.

Siempre sentí un humor natural que me mantuvo alegre. Vengo de un linaje de labradores, de abuelos que alababan la piedad bienhechora. Mis padres embellecían lo que solían mirar. Con ojos encantados santificaban los rincones de la niñez. Así crecí. En el afecto de mis mayores y mis hermanos, en casas de habitaciones con talismanes ocultos, con pájaros bordados sobre almohadas y plantas. Invocaban divinidades, símbolos proletarios.

Fui -sigo siéndolo- un utópico que predica el siglo dieciocho con la mirada de un burgués, un romántico que se emociona y llora la ausencia de los desaparecidos, una suma de contradicciones que van desde la callada melancolía del padre hasta la vivacidad y valentía de la madre.

Distraído y ausente me convertí en el príncipe de Espenuca, un huérfano sin nombre.

Carlos Penelas

miércoles, marzo 26, 2014 No comments
El buen lector hace el buen libro.
Ralph W. Emerson


He reiterado en más de una ocasión que en el Profesorado en Letras Mariano Acosta era fundamental el estudio de las lenguas clásicas, la literatura medieval española, italiana, francesa, inglesa y alemana. La formación de esos años giraba en torno a esa mirada. Nos daba solidez, nos enseñaba el mundo del arte en todos sus matices. Profesores como Lorenzo Mascialino (Latín), Germán Orduna (Medieval española) y Julio Balderrama (Gramática) fueron pilares. Hombres reconocidos en las universidades de Europa, de nivel internacional. Hombres que hablaban y escribían cinco o seis lenguas. Balderrama, lingüista, era un símbolo: veintidós idiomas, entre ellos el guaraní. En esa cosmovisión crecimos, aprendimos y nos educamos. A partir de ella podíamos conocer y reconocer el universo que nos esperaba. La sensibilidad, una existencia descubridora con un conocimiento imprescindible.

“La Historia como el drama y como la novela – dice Toynbee – es hija de la mitología…Se ha dicho por ejemplo de La Ilíada, que aquel que emprenda su lectura como un relato histórico , allí encontrará la ficción y en revancha, que aquel que la lea como una leyenda, allí encontrará la historia”.

Esto podemos presenciar en la literatura norteamericana. Sentir la existencia del hombre en la sociedad, el carácter social de la existencia, el espejo que se pasea a lo largo de una travesía, el héroe anónimo con su virtud pública y privada, el hombre en su mundo. Y todo ello desde lo estético, desde la introspección, desde la realidad interna sobre la anécdota externa. Y todo ello con una técnica narrativa impecable; criaturas de ficción que van plasmando una concepción sobre el tiempo, la vida y la muerte.

La tarea del lector es entender y darse cuenta, gozar con lo mejor de las letras contemporáneas, descubrir el privilegio de la palabra, del clima, en una liturgia mágica, conmovedora.

No es nuestra intensión realizar un catálogo en este breve artículo. Simplemente recordar autores que nos fueron ampliando una visión durante más de treinta años. Una aproximación entonces en bloque: Henry David Thoreau, Edgar Allan Poe, Herman Melville, Stephan Crane, Emily Dickinsen, Henry James, William Faulkner, Mark Twain, Jack London, Dashiell Hammett, Truman Capote, Carson McCullers, J.D. Salinger, Ray Bradbury, Ernest Hemingway, John Kennedy Toole, Henry Miller, H.C.Lewis, Alfred Hayes, Cormac McCarthy, Raymond Carver, William Goyen, Paul Auster…

Seguramente faltan nombres. Sin contar a Walt Whitman, T.S. Elliot, Ambrose Bierce, Eugene O´Neill, Arthur Miller o Tennessee Williams. En ellos admiramos ese universo del cual mencionaba al comienzo de estas líneas: simbolismo, penetración psicológica, sencillez expresiva, visión lírica de la realidad, contemplación de la naturaleza, literatura de frontera.

Las palabras pueden inspirar al silencio, al diálogo del silencio. Hay un registro en la expresión de una obra que deparan otros mundos, otras circunstancias. Es cuando llegan las voces que ignoran distancias. De ese pasado nos nutrimos, nos vamos guiando a la habitualidad de nuestros mayores.

Desde lo cotidiano vamos viendo una simbología que nos acerca a zonas íntimas, a zonas interiores. El hombre actual, escribió Orson Welles, sólo está reelaborando todo el patrimonio cultural anterior.
Las lecturas de juventud son por un lado poco provechosas pues hay impaciencia, distracción y falta de método. Por otro lado está la pasión, la propuesta de modelos. Cuando llegamos a la vida adulta nos damos cuenta de ello. Así como nosotros vamos cambiando, leemos por primera vez un libro releído, sucede con frecuencia, a los textos que nos aguardan les sucede lo mismo.

Partimos de una base: se leen los clásicos por amor. No por obligación o por respeto. Y además debemos saber desde donde leemos. Ni la obra ni nosotros somos intemporales.

Recordemos las lecturas que realizó Cesare Pavese de los grandes escritores norteamericanos, los estudios de Italo Calvino, los estudios que se realizan en todas las universidades prestigiosas del mundo. Es que en Estados Unidos se gestó una literatura renovadora, refleja siempre una tendencia de la novela contemporánea: desplazamientos temporales, monólogo interior, corriente de conciencia, la tediosa sexualidad, una crítica a la propia sociedad norteamericana. Además, el advenimiento de los Estados Unidos como nación de poderío mundial no impidió la renovación del localismo centrado de los principios liberales que rigen al hombre medio norteamericano. Son siempre un testimonio de vitalidad, ofreciéndonos la imagen del hombre anónimo transformado en héroe de su aventura. Aventura que entraña la existencia cotidiana. Y el desasosiego, la violencia gratuita, la rebeldía, tortuosas historias de violencia y sexualidad, el clima onírico por momentos, el vigor siempre de sus personajes unidos a la falsa prosperidad, la evasión moral, la incertidumbre. Eso y más nos acerca esta literatura de análisis social, de sentido profundamente individual y sentido crítico de la raíces puritanas de Nueva Inglaterra. La literatura norteamericana tiene una dimensión imaginativa propia, de tonalidades a veces sombrías en una suerte de credo civil.

Recordemos al tomar un libro aquellas palabras de Marcel Proust en Días de lectura: “Sin duda, la amistad, la amistad referida a los individuos, es algo frívolo, y la lectura es una amistad. Pero por lo menos es una amistad sincera, y el hecho de que vaya dirigida a un muerto, a un ausente, le confiere algo desinteresado, casi conmovedor”.

Carlos Penelas
Buenos Aires, marzo de 2014

martes, marzo 18, 2014 No comments
La Poesía es una pipa.
André Bretón


Ciertos filósofos hacen referencia a materia y espíritu, interioridad y exterioridad, considerándolos opuestos, sin embargo la postura Zen, concibe unidad en los opuestos, espacio y tiempo, autoconciencia y conciencia objetiva, individuo y mundo.

Asimismo, sabemos que los poetas suelen habitar simetrías desbalanceadas, sombras internas y externas, cosmos propios y cosmos de mundo conocido y sin conocer.

Es evidente que el poeta asume el interiorismo y el exteriorismo de la manera en que los griegos lo nombran Ser lírico, y, aunque se sepa que el lirismo es un subgénero de la poesía, ha quedado establecida esta palabra para entender en general el arte de poetizar.

Estos dos conceptos, unidad de opuestos y lírica, conforman la obra del literato Carlos Penelas y se desnudan en esta magnífica Celebración del poema.


Celebración del poema
“Hacer un poema como la naturaleza hace un árbol” dice Huidobro que tuvo de poemas -y de amores- naturaleza pronta, palabras con que introduce Carlos Penelas a su último ensayo sobre poética y filosofía.

Kelly Gavinoser, sostiene que no hay prosa poética, sino poesía en prosa, y bien podría asegurarse cierto en Celebración del poema. Baste leer los dos epígrafes a los que invita el literato argentino-gallego, a quien también la poesía y los amores, como a Huidobro, bien reflejan.

El primero de ellos, de Bernal de Bonaval, “A dona que eu amo e teño por señor amostradema, Deus, se vos en pracer for, senon, dadema morte”; el siguiente del mentado Marqués de Santillana y aquellos versos inolvidables dedicados a la vaquera de la Finojosa: “En un verde prado de rosas e flores…”.

Ya en el primer peldaño Penelas expone verdades sin refute:

“La poesía predice. Celebra constelación en el lenguaje, libertad que habla en sí, que es signo de sí. Inaugura lo humano y su elevación”.

Quizá sea esta iluminación para elegir antagonismos, los opuestos, el sello de la poética que Penelas aborda pues, tras la compleja vacilación halla la firmeza para “indagar el sentido de la vida”.

Transformación, transfiguración, que todo arte que se precie finalmente ha de traspasar, es el estado al que invita sustancialmente cuando habla sobre el poetizar movilizador de nostalgias, una frase impecable que destaca idea, verbo (sin duda movilizar es un verbo inquietante) y sustantivo (nostalgias bien vale su peso en el plomo del anclaje).

Contra poniente, Penelas propone el dinamismo, la palpitación, la vorágine, aquel “Poesía es todo lo que se mueve” de Nicanor Parra, y orienta a ese encuentro a través de dos poetas colosales; Octavio Paz: “La poesía es conocimiento, salvación, poder, abandono.[…]La actividad poética es revolucionaria por naturaleza; ejercicio espiritual, es un método de liberación interior. La poesía revela este mundo; crea otro”, y el alemán von Hardenberg, Novalis, que “identifica el poema con el sueño: la correspondencia entre iluminación exterior y fondo psíquico”.

Más adelante y no podría ser de otra manera tratándose de Carlos Penelas, se aplica a sí mismo lo anterior y afirma que “desde el poema no hay olvido”, para sostener luego que “es la expresión estética que configura las raíces, la casa, las voces de los padres, el mundo agrario, la lírica del amor y del dolor, el desasosiego, el contexto emigrante, la injusticia social, la transición, el desengaño”. Y más abajo, reitera: “El poema es la atmósfera, el clima”.

Para los que gozamos (o penamos) la poesía en los ecos de voces en otro idioma que nos habitan, para los hijos del exiliado, para los descendientes de ese descendido en “la lenta erosión de la vida”, Penelas catequiza un cuadro vivo, aún más allá de los vocablos que elije para exponer.

Así, no es igual decir “En un jarrón hay una flor” que descubrir la soledad en que yace la flor, ahogándose encerrada en el frío del cristal. Pese a que todos asuman la inevitable muerte de la flor, serán los ojos del emigrado, del desenraizado los que descubran la prisión de la flor, su asfixia, su agonía.

Tendrá significancia entonces ese “abrumador sentimiento de empatía en el instante de la creación” que sostiene Penelas: “Fugacidad y transformación en contra de la mediocridad ambiental, fijación obsesiva de lo Bello ante la vulgaridad, lo chabacano, la torpeza mental.[…]visión del sentir y del pensar…”.

Ya en el inicio hablamos del mérito de Penelas en tratar los opuestos, y el Autor mismo trae sobre este punto el análisis de María Zambrano sobre poesía y filosofía, “La poesía es encuentro, don, hallazgo por gracia. La filosofía busca, requerimiento, guiado por un método”.

Ahora bien, ¿cuál es el punto del don, del hallazgo que por gracia recibe el poeta y dónde el vértice en que deja de serlo mientras reflexiona sobre los universos humanos? ¿En qué instante “la gracia petrificada” se moviliza hacia la inquietud por alcanzar respuesta sabia?

Parece responderlo Penelas cuando asegura que “el poema lleva en sí un poder mágico” y agrega quizá desde su propia inquietud “¿está plasmada o no? ¿ha sido, en verdad, conjurado el hechizo?”, tomando la reflexión de Johannes Pfeifer: “La verdadera poesía no es veraz en el sentido intelectual ni es bella en el sentido de la artesanía, sino que por el hecho ´de plasmar bellamente´ es también una manera de apoderase de la verdad”.

Otro espacio de brillante arquitectura literaria y filosófica es cuando el Autor habla de la condición, el oficio del poeta como tal.

“Un poeta no adquiere su condición de tal sólo por un libro, por una línea. Su obra moviliza impresiones, desprendimientos, amores inseguros. Es portador de estados de ánimo, de sensaciones, de nostalgias. Refleja lo que descubre y lo que intuye. Alejado de los falsos pudores, su vocación está en la soledad, en la madurez de la voz, en la ambigüedad de lo cotidiano. […] Todo y cada cosa es una amenaza de eternidad. El poeta siempre anima una dialéctica sutil, por momentos incomprensible”.

Trae esta proclama de Penelas, otra que también le es propia y llega con visos de arenga: “Confieso mi perplejidad ante las masas imbéciles y ante el individuo imbécil. Asco, aburrimiento, mal humor.[…] creo en la búsqueda estética y ética de cada línea.[…]El poema introduce inconformidad y rebeldía. Resiste la adversidad, lucha contra lo intolerable, contra el desprecio, contra lo execrable del ser humano. Y puebla nuestras utopías, nuestros recuerdos, nuestro compromiso con los afectos, con los desheredados. Es una experiencia emocionante y aleccionadora”.

Aquí hay que considerar el verdadero significado de los vocablos que usa -sin yerro-, Carlos Penelas para apuntar buena flecha al centro de la idea, “El poema se enfrenta a los dogmas, a la vulgaridad, a los populismos, a los pobres diablos que creen en líderes, en banderas, en césares”.

Vale para esto la instancia apremiada para “abrir los verdaderos ojos” y, en ese horizonte de descubrimiento, ver el famélico cuadro no ya del “adolescente analfabeto o del pobre diablo que vive del Estado, de los favores del intendente o del comisario” sino de “académicos, de profesionales, de supuestos intelectuales, de pequeños burgueses que viajan en cruceros sin saber si el Teatro Mariinsky queda en Marruecos, en Finlandia o en la Isla Saint Croix” (claro que en ninguno de estos lugares queda y ahí está el guantazo más directo).

Siguiendo, tiene Penelas un aporte impecable respecto a la labor del poeta: “Algunos pintores, en cierta fase de su trabajo, suelen observar la obra frente a un espejo. Observan la imagen al revés. Eso les permite ver el cuadro con una mirada nueva”. Apunta el Autor y por segunda vez, al laberinto de espejos, “ideas imágenes y sombras que vuelven, desaparecen y se combinan en formas diferentes”.

“A veces, sentimos el ahogo de la voz” acredita frente a su propio espejo y por ese rumbo me llega el recuerdo de una foto en blanco y negro, en la que el “coronelazo” Siqueiros, mostraba espaldas y perfil gracias a los espejos en lo que solía reflejar sus trazos, supongo que para ver detalles que se le podrían escapar sin esa inmediata lejanía que producen -inevitablemente- los espejos.

Respecto a la soledad del que escribe, en particular del poeta, Penelas afirma que “el hombre que lee está siempre solo. El hombre que lee no es fácil de manipular. La lectura lo hace diferente, lo hace fantasioso” y lleva este pensamiento más allá de “la conciencia colectiva”, a la necesidad de explorar “la naturaleza y el corazón del hombre”, y otra vez lo antagónico en Penelas que mencionamos al principiar, “despierta (el arte simbólico) en nosotros un eco que ha comprendido el lamento y la esperanza”, dos sentimientos que parecen enfrentarse y se contienen pues “Debemos hablar de la inefable intuición unitaria en la simplicidad del verso, de lo fecundo que nos resulta el instante, de aquello que nos substrae, del perpetuo intercambio de realidades según nuestras diferentes realidades, de la visión del universo”.

En avance, sin perder estatura las ambivalencias, el Autor narra que los astrónomos de la antigüedad esperaban las noches serenas para apreciar en las paredes de los pozos el reflejo de las estrellas en el agua y determinar el recorrido de la bóveda celeste.

Agua y cielo, pozo una y pozo otro, constante dualidad recorrida en busca de identidades, “cada uno de nosotros lleva consigo la ambivalencia, lo sagrado, la memoria de esas calles de barrio, de la aldea, de la villa[…]el hombre desamparado, frágil. Y al mismo tiempo insurrecto, traductor del misterio, del arado”, es permanente vigilia en la obra de Carlos Penelas, asimismo como lo es el apremio por inculcar al poeta su compromiso, “procurar fustigar la irracionalidad, la aparente incoherencia del mundo. El poema en su sentido inicial es un acto herético. Significa que está contra todo orden que petrifica el pensamiento y la mirada”.

Se podía pensar que transmite un estado de inquietud, sin embargo, es justamente lo contrario: “Deseo pasear mi mirada con lentitud. Deseo elogiar el ocio, la serenidad, lo moroso”. Penelas logra en ese estado de contemplación aunar placer, emoción y arrebato: “La belleza poética debe hacernos vibrar como el goce la mujer amada, pues lleva la mitología de las cosas, a los símbolos del destino. Todo poema es una profecía. Desde el alféizar de la ventana veo un jarrón de cerámica con unas flores silvestres. A través de la ventana abierta oigo el canto de un pájaro. Y veo la neblina sobre el monte”. Otra vez, la transición de la que habla en el inicio de su ensayo y el desdoblamiento sobre el objeto de placer (no objeto del placer, entiéndase claramente). “Nace la fantasía, el refugio de transcendente, lo inquietante de cada latido que va revelando nuestro ser, nuestra voz interior […] Goce estético, luz y sonido. El poema es el rescoldo del sueño, lo que sintió el creador”.

Evocando a la palabra, “el follaje, la rama sensible al viento, la vela blanca en la bruma del mar", "convicción íntima que hace sensible la palabra, voces modeladas por una mitología del desorden”, Carlos Penelas no escapa a su lengua materna; entra en intimista hogar que puebla un mundo universal “el ensueño de las voces infantiles”, y confiesa que solo puede escribir a mano alzada sobre una hoja desnuda.

Tras esta confesión, lo sobrevuelan miríadas de postales y es imposible ya, huir de las escenografías que se pisan al leerlo. “[…] una aventura instauradora del misterio que baña el alma humana” […] Si la poesía tiene una finalidad no es satisfacer la vanidad de quienes la crean sino espiritualizar al hombre. Todo lo que se escribe debe ser con pasión…”.

Hacia el remate, Penelas se vuelve más Penelas y su costado menudo, corre con pantalones cortos y zapatos de escuela, por calles adoquinadas de barrio, “El hogar era el centro del mundo, el único lugar en que uno podía estar cerca de los dioses o de los muertos”, un lugar que conserva su memoria y que lleva la “virtud e inocencia de las canciones y los dulces[…]La exaltación del recuerdo, la evocación de la infancia […] Como me suele suceder a menudo, vuelvo a los autores de mi juventud, de mi primera madurez”.

Por si no alcanzaran a ser suficientes estos enunciados: “Hace falta, además, ingenuidad. El placer de admirar, de evocar. Todo se experimenta a partir de la infancia, a partir de lo lúdico”. Para ello, “el verdadero poeta cree en los inconmensurables, en la utopía, en la sagrada unidad del silencio y la fraternidad[…]tal vez toda su obra no sea otra cosa que la obsesiva insistencia de su angustia”.

En ese ánimo de rescate sensible, Penelas regresa al ensueño del labriego y del poeta que lo habitan, para leer el mundo transitando ancestrales corredoiras, camino estrecho y tenaz que marcan los carros campesinos, brinca atoruxos guturales, tantea su pretérito para convencernos de que “lo onírico lleva la forma de la nostalgia”.

Como “la fragilidad de lo visible nos convoca en el poema”, desnuda el tiempo humano, “el sendero que aparece bajo la sombra[…]junto al soliloquio del corazón y el cosmos”, es natural entender que la poesía es uno de los pocos lugares donde no fracasa la palabra; tal vez porque la palabra fracasa frente a lo absoluto y la poesía -y esto lo trabaja impecablemente Rubén Balseiro-, no busca una verdad última. Es el silencio del que habla Penelas cuando menciona el “silencio como “talismán del huerto”, un silencio fructificado, pleno de significados, revelador. Espacios, pausas, que conforman la sugestión, la sutil sensualidad, el “paisaje íntimo, esa mutación del alma” en su propia obra, numeroso corpus publicado a través de varias décadas.

Así, en el plano argumental, Celebración del poema sustenta conocimientos poéticos, contenidos e imágenes de calidad literaria y se supera como ensayo al propiciar convergencias de altitud expresiva entre el Autor y poetas tales como Cesare Pavese, Pedro Salinas, Salvatore Quasimodo.

Es evidente que, como ellos, Carlos Penelas, no confunde “el reflejo de la luz con la luz misma”, su propia obra emparenta el Arte.

Al fin, “la universal voz del poeta” ilumina, a lo largo y a lo ancho, este último ensayo de Penelas. Y lo hace visceralmente. He ahí, la verdadera celebración.

Marita Rodríguez-Cazaux
Sábado 15 de marzo de 2014

CUADERNOS DEL CENTRO DE ESTUDIOS POÉTICOS ALÉTHEIA
Ensayos sobre Poética y Filosofía
Celebración del poema - Carlos Penelas
La Luna Que (2014) Buenos Aires



Carlos Penelas nació en Buenos Aires (Argentina) en 1946.
Profesor de Letras, conferencista, prologuista, ensayista, crítico literario, poeta.
Figura referente en antologías literarias de Argentina, España, Italia, China y Estados Unidos.
Dictó conferencias en Europa y Latinoamérica. Articulista en diversos medios de prensa, diarios y revistas de la República Argentina y del extranjero.
Tiene publicados más de treinta libros de poesía entre los que figuran “La gaviota blindada y otros poemas”, “Finisterre”, “El mirador de Espenuca”, “Posada del río”, "Calle de la flor alta", "Viajero de una soledad", "Poesía reunida", "Álbum Familiar".
Autor de numerosas plaquetas con ilustraciones de Demetrio Urruchúa, Ponciano Cárdenas, Ricardo Carpani, Pérez Célis, Juan Manuel Sánchez, entre otros.
En prosa, “Conversaciones con Luis Franco” (1978 y segunda edición ampliada, 1991), “Los gallegos anarquistas en la Argentina” (1996 y 1999), “Diario interior de René Favaloro” (2003) y “Cuaderno del Príncipe de Espenuca” (2004)., Calle de la flor alta, Viajero con una soledad, Album Familiar.
Su nutrida obra ha recibido elogios de numerosos literatos, entre otros, Luis Franco, Raúl González Tuñón, David Viñas, Ernesto Sabato, Juan L. Ortiz, Osvaldo Bayer, María Elena Walsh, Giuseppe Bellini, Thorpe Running, Eduardo Blanco Amor, Lily Litvak, Frank Dauster, Ricardo E. Molinari, Héctor Ciocchini, Hugo Cowes y Xesús Alonso Montero, entre otros.
En la actualidad dirige el Taller Literario del Centro Cultural y Biblioteca Popular Carlos Sanchez Viamonte en Capital Federal.

domingo, marzo 16, 2014 No comments
El poeta y ensayista Carlos Penelas conitnúa con sus Talleres Literarios de narrativa, poesía y crítica de libros. Puede cursar en a modalidad individual o grupal.


El taller en clases individuales se dicta una vez por semana en horario a coordinar con el tallerista. Informes al 4371-6686 y penelascarlos@yahoo.com.ar

Además, Penelas dicta talleres grupales reducidos en la Biblioteca Carlos Sánchez Viamonte, Austria 2154, los jueves de 20 a 21:30 horas, comenzando el 3 de abril. Para inscribirse, llame al 4802-8211 de lunes a viernes de 16 a 20 o escriba a carlossanchezviamonte@yahoo.com.ar.

Propósito
Brindar una visión global de la poesía y la narrativa haciendo una referencia a géneros, autores (nacionales y extranjeros), las raíces, relaciones que se establecen en una literatura comparada y su vinculación con las demás artes.

El taller está pensado para que se obtenga una visión desde la breve historia de la Estética, el análisis de la lectura, el estudio de recursos expresivos, tanto en poesía como en narrativa e introducir al alumno en un ámbito de reflexión.

Objetivos
Conocer elementos prácticos en el análisis literario, claves en el hecho literario, el proceso de creación y de escritura. El participante podrá obtener una mayor formación en la redacción de textos poéticos, narrativos, etc.

El misterio de la creación -autor y lector- irá develando una forma de bucear el alma humana. El taller se enriquecerá a partir de propuestas y lecturas paralelas, no sólo en el campo literario, si no también en una visión social.

Se trata de indagar caminos hacia la convergencia de pensamiento y la literatura. Se recorrerán senderos con una idea de la crítica textual que comprenda una diversidad de actitudes dentro del corpus clásico y contemporáneo.

Ejes temáticos
La sensibilidad creadora - El acto literario, la educación de la sensibilidad - El poder de la escritura - Las raíces en la creación - El intelectual y su medio - La estética y la ética en el proceso creador. Ejemplos en cine, en música, en pintura.

Alumnos publicados
Los talleristas que cursaron el año pasado, así como sucedió en 2010 y 2011, fueron convocados por la Editorial Dunken para publicar en las ediciones respectivas de El libro de los talleres. Además, muchos de sus alumnos ya han editado trabajos en soledad.

Sobre Carlos Penelas
Cursó estudios en la Escuela Normal de Profesores Mariano Acosta, donde siguió el profesorado en Letras. En la facultad de Filosofía y Letras de la Universidad Nacional de Buenos Aires cursó Historia del Arte y Literatura. Como estudiante obtuvo en 1968 el Primer Premio de Poesía y Primer Premio de Ensayo en la Escuela Normal de Profesores.

En 1977 obtuvo el premio "Arturo Marasso" otorgado por el Mariano Acosta; en 1981 logra la Faja de Honor de la Sociedad Argentina de Escritores (SADE); en 1986 el premio "Accésit" otorgado por la XII Exposición Feria Internacional de Buenos Aires "El libro (del autor al lector)" por la mejor cobertura como cronista de Radio Nacional; en 1988 el premio a la Mejor Cobertura como cronista de Radio Nacional otorgado por la XIV Feria Internacional del Libro; en 1988 el Primer Premio de Poesía "Alfonsina Storni" otorgado por Gente de Letras; en 1992 la Mención Especial de Poesía en el Concurso Latinoamericano "Carlos Sábat Ercasty", Montevideo, Uruguay.

Coordina talleres literarios desde 1984, cuando fue Director de los dictados en la SADE. Actualmente mantiene un taller particular en su domicilio.

Fue crítico literario desde 1983 hasta 1989 de LS1 Radio Municipal y LRA Radio Nacional, donde condujo distintos programas culturales. Colaboró durante años con el suplemento literario del diario La Prensa, y fue columnista de medios gráficos del país y el exterior.

Dictó conferencias en la Universidad de La Coruña, Cátedra de Literatura Latinoamericana y la Universidad Autónoma de Madrid. La Fundación Internacional Jorge Luis Borges lo hizo participar entre los diez poetas vivientes más importantes.

Consulte aquí la bibliografía completa de Penelas.

miércoles, marzo 05, 2014 No comments
Buenos Aires, 2014
Cuadernos del Centro de Estudios Poéticos Alétheia / Ensayos sobre Poética y Filosofía
Ediciones La Luna Que
Plaqueta.
Prosa.


Cuadernos del Centro de Estudios Poéticos Alétheia / Ensayos sobre Poética y Filosofía acaba de publicar Celebración del poema de Carlos Penelas.

En este breve ensayo el autor enuncia las bases de su poética aportando su experiencia como creador valiéndose del simil o comparación, apelando al ideal clásico de la Belleza en el arte y a la imaginación del espíritu tomando los valores griegos y renacentistas como modelos.

El cuaderno integra la colección que ha publicado hasta el momento: De la Razón Poética a la comunión de libertades / Una mirada introductoria al pensamiento de María Zambrano por Graciela Maturo, Heidegger sobre Hölderlin en el Himno Germania: La señal de los dioses por Alejandro Drewes y “Dort…”, Allí…” A partir de un poema de Hölderlin por Jorge Eduardo Fernández.

Publicó La Luna Que, Buenos Aires, marzo de 2014.

lunes, marzo 03, 2014 No comments
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